È un vulcano in continua eruzione ma, soprattutto, è un fuoriclasse nella sua attività che lui stesso definisce “passione”. Il suo innato talento va di pari passo con la sua disponibilità e la sua gentilezza che restano le sue prerogative fondamentali. Stiamo parlando di Fabio Frasca, giovane cinquantenne, animatore di successo ed autentico mattatore del divertimento siracusano e non solo.

Prima di buttarsi a capofitto in questa attività, ha partecipato a diversi corsi di formazione in varie parti del mondo che, oltre ad averlo arricchito notevolmente, gli hanno consentito di allargare il suo lavoro riscuotendo, ovunque, tante soddisfazioni. Quest’anno ha celebrato 30 anni dal suo esordio e di quella che possiamo definire la sua “intraprendenza artistica”.  

Fabio, perché hai scelto la strada dell’animazione? Com’è cominciata questa tua avventura?

«Devo tutto a mio padre: fin da piccolo, abbiamo girato con la nostra roulotte, sostando, poi, in veri campeggi. Lì al mattino, solitamente, si faceva ginnastica in acqua e la sera venivano realizzati spettacoli, con “protagonisti” d’ogni età che, per le loro esibizioni, amavano travestirsi ed indossare parrucche coloratissime: gli albori dell’animazione da lì a venire, insomma. Tutto questo mi incuriosiva e faceva crescere in me l’interesse per lo svago e il divertimento. A 19 anni la svolta della mia vita professionale: frequentavo il 5° anno di Ragioneria e, durante uno sciopero scolastico, conosco una persona, Nicola. Mi aveva notato, quando organizzavamo i balli liceali. Mi informa che in Puglia, in un villaggio turistico, organizzano un corso per animatori e varie. Dove per “varie“ si sottintendeva l’attitudine prevalente di ogni partecipante. Siamo partiti in 50. Una volta raggiunta la destinazione ho fatto di tutto: lo sportivo, il ballerino, il tecnico audio luci. “Promosso”, comunque, come “contattista” per la mia loquacità e il feeling che creavo con la gente. Crescendo, poi, la passione, si è ingigantita e mi ha portato a delle scelte professionali, di cui ancora, grazie al Cielo, raccolgo i frutti».

Come si diventa animatore e cosa, secondo te, deve possedere di speciale?

«È tutto conseguenziale al carattere che hai e, sicuramente, puoi modificarlo a beneficio dei risultati. Devi, però, assolutamente possedere doti che la vita ti regala: l’ottimismo, la disponibilità verso gli altri, il sorriso. Per essere un bravo animatore devi avere pazienza e, fondamentalmente, saper ascoltare senza mai giudicare. Mi è capitato diverse volte che diversi ospiti del villaggio, dove ero presente, si confidavano con me. Le persone desiderano essere ascoltate e si rivolgono verso figure che, tradizionalmente, sono sinonimo di spensieratezza, come appunto, gli animatori».

Quali sono le difficoltà da superare nell’improvvisazione, nell’animare una serata?

«In un villaggio l’improvvisazione è fondamentale, anche se di base, c’è un “cerimoniale“ che si deve rispettare: l’arrivo degli ospiti, l’accoglienza col sorriso, le informazioni necessarie per rendere agevole il soggiorno al cliente. Negli eventi che preparo, certamente, l’improvvisazione resta sempre la “carta vincente“. Per un 18°, ad esempio, serve “carburare” di più. Devi conquistare i giovani che, contrariamente a quanto si possa pensare, sono più restii a lasciarsi andare al divertimento. Li devi convincere a lanciarsi in pista ma, poi, il goccetto di vino… fa il resto. Per i matrimoni, invece, il discorso un po’ cambia: innanzitutto, comincio a coinvolgere da subito, i genitori degli sposi, le zie, le nonne. Le reazioni, grazie ai miei completi coloratissimi e sfavillanti, sono tra le più disparate, fino al coinvolgimento totale».

Qual è l’evento, in cui eri presente, che ricordi con più piacere?

«Sicuramente, tutte le esperienze avute all’estero. In Egitto, per esempio, per i più grandi e titolati Tour operator al mondo, coordinavo diversi pullman con dei percorsi da favola e poi, la sera nei villaggi c’era un evento particolare, a tema. E vedere la soddisfazione impressa sui volti di oltre 1.000 persone, è impagabile».

Cosa ti affascina di più della tua professione?

«Il divertimento allo stato puro. Si, a me piace coinvolgere le persone, farle divertire. E mi entusiasma trasportare le persone in una dimensione di allegria con balli, musica e giochi e alla fine la poderosa stretta di mano ricevuta da chi si è divertito veramente».

Cosa non dovrebbe mai dire o fare un animatore?

«Non dovrebbe mai dire le parolacce al microfono: è mancanza di stile! L’immagine è importantissima: sia per come ti presenti, sia per quello che dici. Non dovrebbe, neanche, star seduto e giocare col telefonino. È importante avere una propria etica, per trasmettere in maniera corretta quello che vuoi esprimere. Senza, però, essere necessariamente moralista».

Fabio, com’è stata la tua infanzia e che tipo di famiglia hai avuto?

«Infanzia bellissima con una famiglia che mi ha sempre lasciato “carta bianca” sulle mie scelte. Dopo la scuola di ragioneria ho scoperto il mondo, sempre sostenuto dai miei genitori. C’era chi criticava le mie scelte: “Ma come parti, senza essere retribuito?” – mi dicevano alcuni. Ma per me era tanto avere vitto e alloggio gratis per due – tre mesi l’anno, in quanto sapevo che dovevo imparare da quelli più bravi di me e “rubare” il mestiere, perché certe volte bisogna farlo, nel senso che, ogni tanto devi comunque capire un po’ come si fa questo mestiere, osservando gli altri. I miei genitori sono stati sempre i miei primi fans. Ricordo che alle mie prime esibizioni all’Hotel Helios di Noto Marina non mancavano quasi mai. Mio padre finiva di lavorare e, nonostante la stanchezza, era presente con mia madre, ad applaudirmi. E questo li rendeva felici ed io con loro. Questa loro gioia mi ha dato anche una serenità nella crescita».

Che cosa hai imparato dai tuoi genitori?

«Sicuramente, l’educazione e il rispetto per gli altri. La disponibilità verso gli amici è un altro elemento importante nella gestione dei rapporti interpersonali. Ho sempre avuto dei genitori che hanno creduto molto in me. Questo, sicuramente, mi ha permesso di poter coltivare con amore la mia passione, liberamente».

Quando scegli o decidi una collaborazione, quali sono i fattori chiave che ti portano a compiere quella scelta?

«La cosa più bella è quando vieni scelto. Mi hanno seguito ad un evento e sono rimasti soddisfatti del mio intrattenimento. Io propongo l’animazione, prospettando, in totale libertà anche altre soluzioni con colleghi del mio stesso settore. Ma sentirsi rispondere da chi ti contatta: “Noi scegliamo te perché ci infondi sicurezza”, beh mi fa aprire il cuore e mi riempie di gioia».

Ogni artista riesce a concretizzarsi tale anche grazie alle esperienze di vita che, in certi momenti per te, sono state dure da affrontare. Come sei riuscito a superarle?

«Questa è una domanda che mi tocca un po’ in profondità, perché sai benissimo che ho perso mio papà da tanti anni. La sua perdita è stata molto difficile da superare. Caratterialmente mio padre mi somigliava tanto. Era una persona solare: faceva l’autista di bus e si “inventava” cicerone con i turisti, praticamente, grazie alla sua innata simpatia. È stato – possiamo dire – un precursore “ante litteram” dell’attività che poi, io ho intrapreso sotto altre forme. Con la sua prematura scomparsa avevo deciso di rallentare la mia attività lavorativa. Poi, spinto da mio fratello, da mia madre e dai parenti più stretti, dopo quattro mesi, ho ripreso a fare l’animatore e sono volato a Cuba, impegnato in un importante progetto con un famoso tour operator. Alla fine mi sono detto: “Mio padre avrebbe voluto così”». 

Quanto ha contato il tuo vissuto privato nella tua passione artistica?

«Prodigarmi per gli altri è stata e continua ad essere una mia peculiarità. È una costante, non fosse altro perché così metto a fuoco meglio le mie idee. Anno dopo anno invento, penso, escogito nuove forme di divertimento per stare al passo coi tempi, per cui ciò che vivo nel mio privato, naturalmente sotto forme diverse di svago, le riporto con il mio estro, nell’impegno dell’attività che svolgo».

Cosa è migliorato e cosa, invece, è rimasto uguale nei locali italiani dopo lo stop dovuto alla pandemia?

«Nulla, secondo me: non è cambiato niente rispetto a prima delle restrizioni, dovute al Covid. Oggi abbiamo dimenticato tutto (o quasi) di quell’infausto periodo. Certo il mio settore, insieme a quello di tante altre attività di ristoro, a causa della pandemia, ha subìto una batosta enorme: lavoro ridotto all’osso e regole rivoluzionate. Il problema adesso, è un altro e riguarda Siracusa, città turistica per antonomasia. Su questo siamo d’accordo, però, la cosiddetta “movida cittadina” viene penalizzata da regole sacrosante, per carità, per il quieto vivere dei residenti ma, a mio parere, abbastanza riduttive per i turisti che desiderano ”vivere” la città fino a tarda notte».

Quali artisti hanno condizionato la tua formazione?

«Non ci sono dubbi, il numero uno in assoluto: Fiorello! Io sono un suo grande estimatore, perché è stato uno dei primi ad inventare questo format. Sinceramente mi sono ispirato a lui nelle mie prime apparizioni, però se, nel tempo non ci metti qualcosa di tuo, resti solo una “copia”. In sintesi: l’ispirazione artistica serve, ma se non ci metti del tuo, non vai da nessuna parte».

Il tuo lavoro ti ha portato in giro per il mondo e a poterti confrontare con realtà differenti. Quali sono le positività e le negatività dell’Italia rispetto ad altri Paesi?

«Beh, le differenze esistono, sarebbe inutile negarle. Quando mi è capitato di viaggiare, per lavoro, ed ho visitato parecchi Paesi, ho fatto emergere da subito la mia sicilianità, nonostante qualche “dubbioso“ di troppo. Conoscendomi hanno potuto riscontrare il nostro tipico carattere, al quale poi si affezionano in tanti. Quando ho vissuto nel sud della Spagna, con le guide locali, sembrava stessi con gli amici di Siracusa, talmente sono nostri simili e mi sono trovato benissimo. In altri Paesi, come la Tunisia ad esempio, dopo un primo periodo di diffidenza, col tempo, conoscendoti meglio, tutto diventa più facile». 

Tu sei siracusano DOC: quando sei fuori per lavoro, cosa ti manca di più della tua città e come vedi il futuro di Siracusa?

«Ho vissuto 16 anni fuori da Siracusa, la mia città. E solo chi è stato lontano come me, può ben comprendere lo stato d’animo di chi, per motivi di lavoro od altro, deve vivere fuori. A me, dico sempre, è mancata la “terra”, intesa come sicilianità autentica: quanto più stai lontano tanto più ti manca. Noi siamo un popolo di “lamentosi”. A Siracusa, è vero, sono tanti i problemi che si cerca da decenni di risolvere: la malasanità, le strade non asfaltate, le periferie dimenticate. Di contro, però, cosa siamo costretti a vedere? Incivili che sporcano la città, auto parcheggiate ovunque e… mi fermo qui. Ho vissuto tre anni in Svizzera, dove tutto funziona, a meraviglia. Ma il mio cuore è sempre stato rivolto a Siracusa. A Palazzo Borgia, tra le tante attività, mi occupo di una serie di servizi per i turisti e faccio loro le domande sui luoghi della città. “Beatiful Syracuse, yes!” – mi ripetono. C’è però, sempre, una nota dolente, le strade sporche, alcuni servizi che funzionano a rilento ed altro ancora. Ecco, proprio lì ho il termometro della situazione, perché questa è l’idea che mi dà il turista, quando viene a Siracusa: “pregi si ma, purtroppo, anche difetti“. L’amministrazione fa quel che può. E noi cittadini?».  

Hai da poco raggiunto un traguardo importante per ogni essere umano: mezzo secolo di vita. Che rapporto hai con il tempo che scorre?

«E chi può negarlo? Il tempo scorre inesorabilmente. Sarà scontata la mia risposta ma è incontestabile: l’importante è vivere in salute! Vivo questo periodo in gran forma. Sono bello carico e ad ogni serata mi impegno, con lo stesso entusiasmo, lo stesso vigore di vent’anni fa. Certo, ma questo è naturale, ho abbassato un po’ i ritmi e la pennichella pomeridiana, non me la deve togliere nessuno. Io sostengo sempre che bisogna apprezzare ogni attimo della nostra vita, senza “se” e senza “ma”. Il tempo bisogna anche saperlo investire bene: nelle amicizie, nella famiglia e nel poter periodicamente viaggiare che per me è fondamentale».

C’è più talento nella spontaneità o nello studio?

«Il mio lavoro, al 90% è fatto di spontaneità; è chiaro, però, che alla base ci deve essere un “canovaccio” strutturale che serve a “rompere” il ghiaccio nei vari eventi. Alla fine di ogni stagione mi documento molto su YouTube: vado a conoscere le novità, rifletto su ciò che vedo e poi, le adatto alla mia personalità, al mio estro. Durante gli eventi in cui partecipo, è palpabile per me l’umore delle persone. Le guardi e subito devi capire la situazione della serata e viverla, adattandoti».

C’è un modo per durare nel tempo?

«Se tu lo conosci dimmelo, Salvo (e sorride). Per me avere sempre la stessa voglia di fare, rappresenta un punto essenziale. Nella mia attività, per non annoiarti e non annoiare, devi cercare stimoli nuovi. Io non conosco l’ozio, la monotonia, sono sempre in movimento. Seguo alcune attività anche da remoto, perché tutto ciò mi rende felice. Io dico sempre: “Il giorno in cui non farò più nulla è perché mi è passata la voglia”».

Cosa ti lascia nel cuore la fine di ogni serata?

«La soddisfazione di aver fatto bene il mio lavoro e il grazie sincero di chi mi ha seguito».

Salvo Bottaro

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